L’Inferno Venezuelano

Cucuta. Circa 800 chilometri da Caracas e 500 da Bogotà. É il nome della città colombiana,  frontiera per l’esodo di almeno un milione di venezuelani immiseriti e affamati. Un Paese nel quale un chilo di caffè costa come 3.000 litri di benzina. Un’immagine dantesca, con una fila di anime disperate che si accalcano per sfuggire alla dannazione alla quale lo stolido regime di Chavez e, poi, di Maduro li ha portati. Una dittatura che ha reso uguali tutti i venezuelani nella miseria e nella scarsità (tranne che per l’elite filogovernativa, ça va sans dire). Un Venezuela, oppresso, depresso, isolato che si é autoescluso, grazie al suo predecessore Chavez, dalla solidarietà del Patto Andino. Un popolo deprivato di tutto, anche della libertà di ribellarsi alla narrazione ufficiale di implausibili responsabilità del capitalismo  globale per la gravissima crisi domestica. Gente che va, gente che torna, dopo aver venduto le povere cose che ancora possiede, in cambio di cibo, farmaci e altri generi di prima necessità. In patria manca tutto. In questo clima umido, afoso e surreale, si improvvisano mercati di ogni genere: spicca la fila di giovani donne che offrono le folte capigliature corvine per 50.000 pesos, l’equivalente di 15 euro. Il minimo per sostentare la propria famiglia in patria per qualche giorno. Poi si vedrà.
La notte, questo “paradiso” si svuota per paura di assalti e delle  violenze delle bande di ex paramilitari.
Tanti cognomi di questi disperati venezuelani suonano di origine italiana.
La tragedia umanitaria del Venezuela, apparentemente, non desta l’attenzione dei nostri commentatori terzomondisti. Perché, dar voce a questi disperati, che spesso condividono le nostre radici, vorrebbe dire certificare l’ulteriore fallimento del socialismo reale e dei suoi ultimi idoli.

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